II

1813-15. FILOLOGIA ED ERUDIZIONE: PRIMI SCHEMI INTELLETTUALI

Con il 1812 si chiude questa prima fase della formazione e dell’attività leopardiana e con il 1813 inizia un nuovo periodo in cui il Leopardi abbandona lo scrivere in versi e si applica a una vasta attività di studio (è l’anno dello studio del greco e dell’ebraico, appresi senza alcun maestro), alla piú ampia esplorazione della biblioteca paterna (anche in seguito all’autorizzazione di leggere i libri “proibiti”), all’inizio del suo impegno filologico ed erudito, insieme all’attuazione di opere bisognose di informazione, ambiziose di interventi personali nella cultura del proprio tempo, interessanti per un primo affiatamento con schemi culturali e filosofici e per una prima meditazione sulla natura dell’uomo.

Per quanto riguarda la piú specifica attività filologico-erudita (i lavori fino al ’16: Porphyrii De Vita Plotini et ordine librorum ejus, Commentarii de vita et scriptis rhetorum quorundam qui secundo post Christum saeculo vel primo declinante vixerunt; Fragmenta Patrum Graecorum saeculi secundi; In Julium Africanum Lucubrationes; Discorso sopra la vita e le opere di M. Cornelio Frontone ecc.)[1] converrà rilevarne sia la diretta importanza di documento di un impegno intellettuale e critico assai originale e di prova della forte, autentica vocazione filologica del Leopardi (che, alla luce dello studio, fondamentale, di Sebastiano Timpanaro, si profila come la piú originale nel campo della filologia italiana di primo Ottocento)[2]; sia la qualità di riprova della forza intellettuale di un poeta, la cui grande poesia si rafforza cosí, nella sua complessa genesi non solamente fantastica, ma anche intellettuale; sia l’utilità che essa ebbe nella formazione dello stesso linguaggio leopardiano nella sua attenzione scrupolosa alla parola, ai mezzi espressivi. Ma per lo sviluppo intellettuale e culturale del giovane scrittore ancor piú direttamente interessanti appaiono, in questo periodo, i saggi, Storia dell’astronomia e Saggio sopra gli errori popolari degli antichi.

La Storia dell’astronomia, scritta nel 1813 (e ripresa, in forma piú breve e sintetica, nella Dissertazione sopra l’origine e i primi progressi dell’astronomia del ’14, poi abbandonata), è stata considerata dalla critica, prima, come lavoro puramente erudito, poi, come prima rivelazione di una vocazione poetica: la poesia del cielo, dell’idillio cosmico, rivelata dalla stessa sintomatica scelta dell’argomento[3]. In realtà quel lungo scritto, se non è solo uno sfoggio di erudizione e di letture (spesso poi di seconda mano, attraverso enciclopedie e compilazioni divulgative settecentesche, ché molti dei libri citati non esistono nella Biblioteca Leopardi), non è neppure, d’altra parte, un’opera interpretabile secondo le proposte di ricerca di motivi prepoetici originali: proposte in verità piuttosto azzardate e assai anticipanti, di fronte al piú lento e tardo maturarsi della poesia leopardiana, anche perché, come diremo, certi passi piú probanti in quel senso si rivelano come inserimenti, in un testo di andamento espositivo e ragionativo, di brani ripresi o sunteggiati da opere altrui, in forma di “squarci immaginosi” che lo stesso Leopardi tende a bloccare e isolare in forma di digressione piú ornata ed eloquente entro un discorso volto ad altra destinazione e ad altro interesse dominante.

Infatti, nella Storia dell’astronomia campeggia un interesse divulgativo e culturale che, per quanto ingenuo (e confuso con l’ambizione del giovane studioso di mostrare la sua vasta cultura anche artificiosamente, citando libri non letti magari ricorrendo a citazioni di seconda mano), colpisce per la precoce volontà del Leopardi di presentarsi come personalità di cultura, come promotore di una battaglia a favore della “luce” della ragione e della scienza contro le “tenebre” dei pregiudizi e dell’ignoranza, come “giovane riformatore” coraggiosamente capace di intervenire e di impegnarsi in una lotta decisa per il trionfo della verità. Donde l’entusiasmo con cui si presentano le biografie degli scienziati e magari (con espressione dell’Algarotti) dei «martiri della ragione», in lotta con i pregiudizi, con le difficoltà e le ostilità del tempo.

Donde anche l’ingenua, implicita assimilazione di se stesso “giovane riformatore” con i grandi scienziati che elaborano le loro piú geniali scoperte nel “bollore” della gioventú o che, come lui, si applicarono allo studio «con una specie di furore».

Prospettiva eroica e agonistica che, pur nella sua ingenuità, può dirci qualcosa su elementi essenziali della personalità leopardiana tutt’altro che inattiva e puramente contemplativa e idillica, fin da queste sue manifestazioni piú immature. E insieme, entro il quadro di tipo cattolico provvidenziale che riprende le posizioni della prima formazione leopardiana, in ambito monaldesco (quali potevano apparire già in un componimento in versi, del 1810, Giacomo Leopardi al suo diletto genitore dopo due mesi di studi filosofici[4], in cui la ragione è fatta arma della religione contro gli empi che questa combattono), la Storia dell’astronomia mostra un singolare fervore nell’accettazione di uno schema di progresso della ragione e della scienza: uno schema illuministico ingenuamente applicato come continuo, rettilineo, senza vere fratture (seppure con ostacoli vinti dall’eroico coraggio degli scienziati e dalla forza illuminante della ragione) e anzi portato sino all’eccesso, ricercando le coincidenze cronologiche fra la morte di uno scienziato e la nascita di un altro scienziato che porti avanti le scoperte del primo, quasi che la natura, servendo al dispiegarsi di un disegno provvidenziale e divino, si preoccupi di riparare continuamente alle perdite provocate dalla morte.

E, pur nel ricordato quadro provvidenziale e cattolico (con punte polemiche contro gli empi, e magari Voltaire), l’accettazione di schemi e idee illuministiche è cosí lata che la stessa critica rivolta a Cartesio non è fatta da un punto di vista religioso, ma dal punto di vista del newtonianismo e dell’empirismo (secondo le posizioni del noto scritto algarottiano, Newtonianismo per le dame, che fu evidentemente ben presente al giovane scrittore).

Cosí il Leopardi veniva affiatandosi con elementi di quella filosofia settecentesca che sarà poi base di dissensi e di riprese a ben altro livello, ma che in ogni modo fu essenziale per le sue posizioni mature fino agli sviluppi dalle Operette alla Ginestra, in cui la stessa contrapposizione fra tenebre e luce, caricata di un potente senso di annuncio supremo e arricchita da tutta l’enorme esperienza leopardiana sulla miseria e nobiltà dell’uomo, ritornerà dominante e originalissima, ben al di là dell’ingenua impostazione schematica di questo scritto (e del suo raccordo con posizioni confessionali e provvidenzialistiche).

Il quale comunque è spia interessante della nascente tensione leopardiana a una lotta per la verità fatta in prima persona, e di un primo affiatamento del giovane Leopardi con la cultura illuministica.

Il tutto ovviamente entro forti limiti di ingenuità, di inesperienza, di difficoltà espressiva che si riflettono nell’andamento piuttosto rigido e pesante del discorso, nell’incertezza del linguaggio, pieno di francesismi e di improprietà, che non mancano neppure in quegli “squarci immaginosi”, di tono piú eloquente ed enfatico su cui alcuni critici hanno puntato, per ricavarne il significato prepoetico di quest’opera. Si tratta del lungo brano riportato in nota[5] o di altri brani che, piú frequenti nella Dissertazione del ’14[6], possono comunque indicare un certo rafforzarsi di gusto immaginoso, poi ripreso, in altra direzione e pur sempre con forti limiti retorici e con scarsa originalità, nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi.

Quel brano è in realtà piú che una parafrasi e un riassunto di un lungo passo della ventunesima notte dello Young, il noto scrittore inglese settecentesco la cui opera Notti (tradotta piú volte in italiano)[7] fu fortemente attiva nella memoria poetica del Leopardi e poté agire, insieme ad altre letture preromantiche, con suggestioni e stimoli, nella genesi di suoi elementi e motivi meditativi e poetici. Sicché quel brano, e altri simili, presenti nella Storia dell’astronomia, piú che testimoniare di precisi avvii originali della poesia, paiono piuttosto significativi come inizio di una lettura assai importante nella formazione personale-storica di motivi leopardiani: non “fonti”, secondo la terminologia positivistica, ma certo suggestioni e stimoli ideativi, immaginosi, linguistici, in una formazione originale e storica come quella di ogni poeta e non miticamente astorica e puramente istintiva.

Già dal brano riassunto nella Storia dell’astronomia, ancora in forma cosí passiva, resterà nella memoria leopardiana quel paragone della terra a un «punto» e degli astri a «granelli di arena» che potrà ritornare a sostenere l’impianto lirico della strofa quarta della Ginestra.

E quante offerte, quanti stimoli alla fantasia e alla meditazione leopardiana dovettero presentarsi nella lettura e nel ricordo e nell’assimilazione di quelle pagine che spesso poterono appoggiare l’espressione piú immediata di apoftegmi pessimistici di alcune delle sue poesie piú giovanili, in relazione a una intensa, ma meno chiarita sofferenza personale, e prima del consolidamento riflessivo delle posizioni proprie nello Zibaldone e nelle Operette morali.

Cosí, alla via della complessa formazione del sentimento dell’infinito, che si alimenterà di tanti altri stimoli preromantici, già nello Young (e nella piú precisa sollecitazione delle traduzioni italiane, specie di quella in prosa del Loschi[8], e dunque già in forma di mediazione e avvio di linguaggio) si trovano elementi di base nelle insistite indicazioni dello «spazio incommensurabile», dell’«illimitato spazio» che «l’idea risveglia di una infinita durazione»[9], dell’infinito come «abisso, dove il pensiero si perde e svanisce»[10], e come «un mare illimitato, né io scopro lido veruno, a cui io possa approdare»[11].

Cosí, in altre direzioni leopardiane, le immagini contrastanti dell’«errore» giovanile di una durevole felicità («In qual Universo incantatore abitava la mia gioventú! Con quai ricchi colori la mia vivace imaginazione mi rappresentava tutti gli oggetti! Dovunque io volgeva il guardo, a qualunque parte io tendeva l’orecchio, io non vedeva che un apparato ridente, che prospettive dilettevoli e varie, che piacer seguaci in lunghissima serie d’altri piaceri, io non ascoltava che promesse di prosperità e di gioja»)[12], dello scompenso fra le illusioni giovanili e il loro svanire, misurato sull’improvviso sfiorire e scomparire di creature giovani, pure e belle («Quanto è piú splendente, tanto meno durevole è la vita. Come la gioventú e la salute lampeggiavano dagli occhi»; «Come bella era ed avvenente! [...] Qual vezzo aggiugneva in lei la innocenza alle attrattive della giovinezza! Quanto ilare e gioviale era sempre il suo volto! [...] Come repentinamente ella è stata balzata dall’apice della contentezza!»)[13], della solitudine e perfidia del «mondo», «deserto tetro ed ignudo»[14], «fango»[15] («quel perfido mondo, che mai sincero non fu sperimentato da’ suoi piú fidi seguaci; di quel mondo avaro, che dà sí poco, e che sí tosto si ripiglia indietro i doni suoi!»)[16].

O la meditazione sulla vecchiaia “morte delle speranze” e “logoramento dell’uomo”[17], sulla caducità degli imperi («Cadono pure gl’imperii? Dov’è l’impero de’ Romani? Dove quello de’ Greci? Eccoli divenuti un suono della nostra voce»)[18], sulla sorte piú felice degli animali e su quella infelice di tutti gli uomini («Guida le tue greggie in un pascolo pingue: tu non le udrai belar mestamente [...] la pace, di cui godono esse, è negata ai lor padroni. Un tedio e una scontentezza, che non dà mai tregua, rode l’uomo e lo tormenta da mane a sera. Il Monarca ed il pastore ugualmente si querelano della loro sorte»)[19], sulla sperata partecipazione delle stelle al dolore degli uomini e viceversa sulla sordità della natura al lamento del poeta («Non abbiamo che le stelle per testimonii; sembrano esse talor sospendere il corso delle loro orbite per inchinarsi a udir le voci della tua mestizia: ah tutta la natura sorda solamente ed insensibile è al mio lamento!»)[20], o sulla morte liberatrice, sulla noia, sulla vocazione al suicidio. E al culmine di questa tensione dolorosa, che poi lo scrittore inglese volgeva a glorificazione dell’eternità e di Dio, salivano (seppure in bocca all’incredulo combattuto dall’autore) le proteste piú disperate di un Giobbe preromantico piú coerente e deciso contro la natura inutilmente vagheggiata dall’uomo, contro lo stesso Dio «crudo tiranno» assimilato dai suoi «motivi arcani» alla arcana ragion di stato dei tiranni mondani, che «ama le ruine, e di regnar si compiace sopra un deserto», il cui fulminante decreto contro gli uomini è: «Voi tutti sarete mortali, e tutti infelici». E a lui gli uomini «Schiavi [...] oppressi da invisibil tiranno» rivolgono queste domande: «son forse codesti i tuoi sí decantati benefici?»; «Domandato io non t’avea che tu nascere mi facessi [...] Con una barbara prelazione tu mi arricchisti del pensiero, e mel converti in una facoltà di soffrire; della vita, e me la converti in una facoltà di morire»[21].

Indubbiamente, un maggiore interesse rispetto alla Storia dell’astronomia del 1813 si può trovare nella lettura del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi del 1815. Questo saggio è anzitutto prova di una notevole maturazione di studio, di capacità di arricchimento di letture rispetto alla Storia dell’astronomia, in cui lo sfoggio di erudizione era piuttosto artificioso perché spesso non si trattava di letture dirette, ma piuttosto di citazioni indirette tratte da enciclopedie e da compilazioni. Viceversa, nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi ci troviamo di fronte a un Leopardi che domina direttamente una mole molto vasta di testi, particolarmente della letteratura classica. Evidentemente anche l’esercizio filologico, che in questo momento si svolgeva parallelamente a queste due opere, fruttava anche come maggiore possesso della lingua latina e greca tanto che in questo nuovo libro sono numerosissime le citazioni greche tradotte personalmente dal Leopardi; ed esse sono indicazione interessante per quella che sarà la prossima, vicina, attività del traduttore di poeti greci. Le citazioni greche, tradotte in italiano, appaiono infatti già un avvio a quel gusto del tradurre, a quel gusto del «far propri» come egli dirà, i testi della poesia antica; quei testi poetici greci di fronte ai quali in questa operetta il Leopardi mostra anche una reazione, una capacità di risentirne il fascino: tanto che nella dedica di questo lavoro a un erudito del tempo, il Mustoxidi, si parla della poesia greca e dei poeti greci come di «incantati alberghi delle muse»[22].

Il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi è interessante dunque sotto questo punto di vista: ci mostra un Leopardi sicuro del suo dominio del greco, del latino, della letteratura classica, il quale, attraverso le traduzioni di citazioni greche, si avvia all’esercizio del tradurre. E ci mostra d’altra parte, anche dal punto di vista dello sviluppo intellettuale, un Leopardi che adopera degli schemi piú complessi di quelli adoperati nella Storia dell’astronomia. Mentre nella Storia il Leopardi accetta infatti uno schema di un lineare progresso, nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, pur movendosi sempre da un impegno, diremo cosí, di tipo illuministico (cioè la lotta contro gli errori, contro la superstizione, contro i pregiudizi, contro le tenebre della ignoranza), manifesta un continuo affiorare di dubbi e di incertezze sulla validità stessa della razionalità umana, dato che gli uomini vincono un errore, ma cadono in un altro errore; vincono un pregiudizio, e un altro pregiudizio si affaccia. Cosí è nato il dubbio che il progresso non sia cosí lineare, che vi sia anche una specie, a volte ossessiva, di circolo, di ritorni, di ricadute continue.

Per fare solo qualche esempio, si veda il punto in cui il Leopardi, di fronte al riaffiorare di un pregiudizio, in epoca moderna, dice appunto:

Esso ci farebbe quasi credere che gli errori, come le comete, abbiano un periodo; che dopo qualche secolo, quando si è cessato di declamare contro di loro, ricompariscano essi sulla scena sotto un nuovo aspetto; e che gli uomini sempre curiosi, sempre inquieti, sempre avidi di scoperte, dopo avere immaginate, adottate e rigettate successivamente opinioni e sistemi, tornino ad abbracciare ciò che aveano rifiutato, e a calcare, senza avvedersene, le pedate impresse dai loro maggiori. Questa riflessione ci condurrebbe a pensare che lo spirito umano non percorra una linea retta di cognizioni, allungata in infinito, ma un circolo limitato, e torni necessariamente di tempo in tempo sullo stesso luogo.[23]

Qui il Leopardi affaccia un’idea molto diversa da quella che animava la Storia dell’astronomia: non piú una linea retta, ma appunto un continuo circolo, per il quale l’uomo ricade continuamente nella possibilità degli errori. Da questo schema piú complesso, che il giovane Leopardi viene costruendosi dentro il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, deriva anche una maggiore acutezza di osservatore della natura umana. Si ripensi alla frase ora citata dove si parla degli uomini «sempre curiosi, sempre inquieti, sempre avidi di scoperte» e che pur ricadono nell’errore. C’è appunto nell’importante saggio del 1815 anche l’affiorare del moralista, dell’osservatore della natura umana. E da questo punto di vista, nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi poteva in qualche modo influire anche una maggiore considerazione di certi elementi della sua formazione religiosa, che portavano Leopardi anche a spunti di pessimismo sulla natura degli uomini, sulla loro capacità di errore e sui loro limiti. E infatti in un discorso sacro tenuto nel 1814, in un oratorio di Recanati, il giovane parla di un «mesto contemplatore della umana natura, indagatore sollecito degli arcani ravvolti nell’ombra della sua propria essenza»[24].

Sicché la stessa maggiore riflessione su elementi del cristianesimo che egli professava, portava lo scrittore anche a questa volontà di introspezione e di analisi della natura umana. D’altra parte, il tema dell’errore, che è interessante per il complicarsi degli schemi adottati sulla storia, sul passato e sul presente, viene anche arricchendosi di altre possibilità che scaturiscono proprio dal tema fondamentale. Anzitutto certi toni di risentimento, certe espressioni (per esempio l’errore che «Muove la bile del filosofo») che richiamano poi certi tipi di sdegno morale, di cui l’epistolario leopardiano è particolarmente ricco («muover la bile», «muover lo stomaco», «stomacare»). Espressioni che qui cominciano ad affiorare con insistenza e che testimoniano la ipersensibilità morale leopardiana.

Inoltre il parlare dell’errore, l’avvertire come l’errore continuamente rinasca, induce il Leopardi da una parte allo sdegno, dall’altra anche a dei movimenti di ironia, di humour di fronte a certi antichi miti favolosi e superstiziosi. Queste forme di ironia, di lieve comicità non potranno essere considerate direttamente quali sicuri, immediati anticipi dell’ironia delle Operette morali[25]. Però qui, rispetto al saggio Storia dell’astronomia, comincia a muoversi qualcosa di piú legato al futuro del Leopardi. E alcune paginette del saggio hanno anche un certo gusto di scrittura e una certa maggiore sicurezza stilistica; ad esempio, le pagine in cui il Leopardi introduce alcune lievi inserzioni ironiche. Come quando parlando del sole, di cui gli antichi non sapevano cosa farsi durante la notte, dice che essi «lo provvidero di letto, onde passasse commodamente il tempo del commune riposo. Altri giudicarono che il sole alla sera tuffatosi nel mare, si estingueva, e che alla mattina una quantità di particelle ignee si riuniva per formare un nuovo sole». Oppure, quando parla degli astri divinizzati, egli aggiunge: «Fu un nulla per gli antichi, dopo aver divinizzati gli astri, il supporre che qualcuno tra essi precipitasse talvolta dal cielo, con pericolo evidente di rompersi il collo». Oppure, ancora, parlando dei corpi celesti che, secondo alcune credenze antiche, si sarebbero alimentati, avrebbero avuto un loro cibo, dice:

Men felice sorte toccò a quella sentenza antichissima, che il sole, la luna, le stelle, tutti in somma i corpi celesti si cibino quotidianamente, o si dissetino. La proposizione è veramente molto ardita, ma essa fa onore al coraggio di chi l’ha immaginata. Bisognava però determinare da qual luogo traggano cotesti corpi gli alimenti che loro sono necessari. Chi mai avrà potuto fornire alla enorme spesa che si richiedeva per provvedere di vettovaglie quegl’immensi globi, i quali correndo tutto il giorno indefessamente, e trafelando per il caldo, doveano sicuramente essere di buon appetito?[26]

Minore filone ironico e comico che non nasce tanto da un gusto staccato dal contesto generale, ma dalla stessa reazione che il giovane Leopardi viene provando di fronte al suo tema: combattendo l’errore, denunciandone il risorgere, sdegnandosene moralmente, ma insieme sorridendoci sopra e, d’altra parte (ed è questa la via di certe pagine che hanno piú attratto, e troppo attratto, l’attenzione di alcuni critici) anche restandone a volte affascinato.

Il Leopardi combatte l’errore, ma a volte c’è in lui anche una specie di attrazione per l’errore stesso, in quello che esso ha di immaginoso, di misterioso. «Ogni errore», dirà a un certo punto, «ha qualcosa di arcano che ci attrae». È l’errore che rivela il suo margine immaginoso, fantastico, di cui il giovane scrittore in qualche modo si compiace ricavandone alcune prove di notevole abilità scrittoria.

Su questo punto secondo me (che cerco una rappresentazione piú graduata e vera del lento e complesso sviluppo leopardiano), alcuni critici, come il De Robertis, il Russo e il Flora hanno finito poi per eccedere nel loro entusiasmo, nella loro concessione di credito al Saggio.

Il Flora ha parlato di questo libro come vivaio dei sentimenti poetici leopardiani e il Russo ha parlato di incunabolo della poesia leopardiana. Essi hanno considerato cioè il libro direttamente e direi unicamente come un documento di inizio di poesia accordandolo poi a certi temi leopardiani idillici.

Ora tutto ciò va limitato nella sua giusta prospettiva. Intanto va detto, come accennavo, che motivi e toni quali lo stupore di fronte a certi spettacoli della natura, la lieve vibrazione poetica di fronte a certi miti antichi sono però legati ad altri temi che vanno pure notati nel Saggio, che è anche piú ricco e piú vario e non si svolge solamente in questa direzione.

Perché in tutto il libro noi avvertiamo in complesso una maggiore vivacità generale dello spirito leopardiano, una maggiore maturità intellettuale e culturale e anche una maggiore alacrità immaginosa e di sensibilità. E va ribadito il fatto che queste paginette su cui si appuntò l’interesse del De Robertis e del Russo, hanno viceversa una troppo vicina base letteraria.

Come era avvenuto nella Storia dell’astronomia, anche qui l’indagine ci porta a trovare sotto queste pagine una molto vicina ripresa di testi letterari altrui. Per esempio nella paginetta sulla quiete del meriggio in campagna. Ora se noi andiamo a controllare i libri che facevano parte delle letture leopardiane di questo periodo, troviamo che questa paginetta è fortemente esemplata, in parte ricalcata, su di un idillio del Gessner, tradotto dal Padre Soave. Certo, simili osservazioni vanno fatte con misura particolare. Non è che quando sotto certi versi leopardiani possiamo trovare l’eco di una poesia precedente, questo fatto svaluti di per sé l’originalità di quei versi. Ma a questo livello giovanile di maggiore ricettività e relativa passività, la pagina letteraria precedente è ancora troppo vicina, è una pagina che il nuovo scrittore non ha profondamente ritrasformato, e quindi la sua troppo vistosa vicinanza costituisce un limite di fronte a certi facili entusiasmi per la scoperta precoce degli inizi originali della poesia leopardiana.

Come dicevo, lo stesso errore combattuto e d’altra parte riconosciuto come continuamente risorgente offre al giovane Leopardi anche un suo margine di attrazione. L’errore rivela al Leopardi anche aspetti di antiche leggende che hanno un carattere poetico, immaginoso e favoloso. Sicché dentro questo libro indubbiamente spuntano anche delle pagine che hanno un andamento di prosa poetica e che rivelano animazione e vibrazione di sensibilità.

E tuttavia di fronte a queste pagine, come si è già detto, non si dovrà assumere l’atteggiamento troppo entusiastico che è stato a volte assunto dalla critica (particolarmente nel caso del De Robertis, del Russo, del Flora), e vedervi addirittura l’anticipazione precoce della poesia leopardiana. In realtà, non solo queste pagine di andamento poetico sono sempre da vedere in rapporto a un contesto piú complesso (che non ha al suo centro una diretta intenzione artistica e poetica), ma devono essere considerate come ancora fortemente appoggiate a precedenti testi letterari. Sicché, nel caso di queste paginette, il gusto, piú abile e alacre di fronte alla Storia dell’astronomia, il loro andamento di prosa piú artistica, hanno chiari limiti che vanno segnati anche alla stregua di una nostra maggiore conoscenza di possibili testi letterari che il Leopardi aveva presenti e che utilizzava fortemente in queste sue prove. E ciò appare molto chiaro anche in quel brano, che è di solito piú citato da coloro che ricercano nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi questa specie di inizio, di apparizione precoce della poesia e delle tendenze idilliche leopardiane, secondo la nota tesi di un Leopardi essenzialmente e preminentemente idillico. Cioè la descrizione del meriggio:

Tutto brilla nella natura all’istante del meriggio. L’agricoltore, che prende cibo e riposo; i buoi sdraiati e coperti d’insetti volanti, che, flagellandosi colle code per cacciarli, chinano di tratto in tratto il muso, sopra cui risplendono interrottamente spesse stille di sudore, e abboccano negligentemente e con pausa il cibo sparso innanzi ad essi; il gregge assetato, che col capo basso si affolla, e si rannicchia sotto l’ombra; la lucerta, che corre timida a rimbucarsi, strisciando rapidamente e per intervalli lungo una siepe; la cicala, che riempie l’aria di uno stridore continuo e monotono; la zanzara, che passa ronzando vicino all’orecchio; l’ape, che vola incerta, e si ferma su di un fiore, e parte, e torna al luogo donde è partita; tutto è bello, tutto è delicato e toccante.[27]

Ora questa paginetta, che tra l’altro può denunciare una permanenza nel linguaggio leopardiano anche di chiare forme francesizzanti, certo piú abbondanti nella Storia dell’astronomia (per esempio quel «toccante» finale), non può essere valutata al di là dei suoi limiti. Certo, vi è un andamento di carattere piú artistico, vi è una lieve vibrazione, una partecipazione maggiore da parte dello scrittore al tema che tratta. Ma non bisogna perdere di vista che essa è fortemente esemplata su alcuni idilli di quello scrittore di moderato preromanticismo che fu lo svizzero Salomon Gessner, che era stato tradotto piú volte in Italia e che il Leopardi possedeva nella biblioteca paterna, nella traduzione del Padre Soave, esattamente nell’edizione uscita a Osimo nel 1791[28]. Chi vada a rileggersi soprattutto l’idillio gessneriano intitolato La tomba dell’uom dabbene, troverà un brano che appunto comincia «Era il meriggio...» in cui ritornano proprio quei particolari di piccolo realismo idillico, che piú ci colpiscono nel brano leopardiano («la lucerta», «la cicala»): sono elementi di una natura aggraziata e illeggiadrita, risentita già nel testo originario secondo le componenti di un gusto che associa certa leggera sentimentalità preromantica, di colorismo settecentesco prezioso, e rococò, tutto attento ai piccoli e preziosi particolari della scena.

La stessa costruzione di questa paginetta leopardiana, che tanto punta su una serie insistita di piccole entità naturali e animali (la lucerta, la cicala, la zanzara, l’ape ecc.) riproduce (ben lontana dalle forme piú sintetiche della grande poesia successiva) questo andamento piú tardo-settecentesco. Sicché la pagina viene ridotta in realtà a una sensibile e preziosa esercitazione letteraria. Ciò non toglie che noi possiamo avvertirvi qualcosa di piú gradevole rispetto alla secca prosa raziocinante della Storia dell’astronomia e a volte anche una certa capacità di indagine psicologica (la pagina sugli spaventi notturni, la pagina sui sogni). E indubbiamente queste pagine dimostrano non solo una crescente abilità scrittoria, ma anche un maggior gusto personale di introspezione, di psicologia, la possibilità persino di utilizzare una propria esperienza. E, per esempio, da questo punto di vista, può apparire abbastanza chiaro che quando il Leopardi parla degli spaventi notturni dei fanciulli, il pensiero non può non correre poi a un celebre passo delle Ricordanze dove appunto il poeta maturo ricorda le notti in cui «Per assidui terrori [...] vigilava» (v. 54).

Infine il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi può essere ancora interessante a ribadire ulteriormente, al di là di quanto ne abbiamo detto all’inizio, il grado delle posizioni a cui il giovane Leopardi è arrivato in questo periodo anche in senso spirituale e religioso.

E, per esempio, mi pare importante notare il fatto che la chiusa di questo saggio che si rivolge alla religione, come quella che piú saldamente contribuisce a cacciare gli errori, è intonata, non tanto e non solo alla posizione che il Leopardi aveva svolto nella Storia dell’astronomia (là dove la religione appariva soprattutto legata alla ragione e gli elementi illuministici servivano di appoggio a una specie di religione illuminata), ma ancor piú a un tipo di religione, di cattolicesimo piú sentimentale, inteso come «conforto del cuore». Il che presuppone un allargamento anche di certe letture del giovane Leopardi, valide non solo da un punto di vista letterario, ma anche come indice del suo legame alla sfera cattolica. Cosí evidentemente, questo branetto finale («Oso pur dire che non ha cuore, che non sente i dolci fremiti di un amor tenero che soddisfa e rapisce, che non conosce le estasi in cui getta una meditazione soave e toccante, chi non ti ama con trasporto, chi non si sente trascinare verso l’oggetto ineffabile del culto che tu c’insegni»)[29], riporta a letture di testi piú moderni, a testi del tipo del Génie du Christianisme dello Chateaubriand (che sarà poi uno dei tanti contro cui piú tardi Leopardi, nello Zibaldone, polemizzerà fortemente).

In questa fase la posizione religiosa del Leopardi viene come ammodernandosi, come avvicinandosi a certe forme della spiritualità della Restaurazione, di cui lo Chateaubriand può essere considerato uno dei promotori. Cosí come, usufruendo di un altro piccolo scritto dello stesso periodo, non possiamo non precisare, alla luce della Restaurazione, la stessa posizione di carattere latamente politico che il giovane Leopardi aveva in questo periodo: precisazione che vale anche per capire poi i successivi movimenti, le successive reazioni, i successivi svolgimenti leopardiani.

Si tratta dello scritto intitolato Agl’Italiani. Orazione in occasione della liberazione del Piceno[30]. È un’orazione che il giovane Leopardi scrisse nel caldo degli echi di un grosso avvenimento storico di quell’anno, cioè la battaglia di Tolentino (31 marzo 1815), in cui Gioacchino Murat era stato battuto dagli austriaci durante il suo azzardato tentativo di portare la guerra nell’Italia settentrionale, di assalire gli austriaci e di formarsi, durante l’irrequieto periodo che porterà poi Napoleone a Waterloo, un grosso regno unitario italiano.

L’avvenimento e soprattutto il proclama di Rimini, con cui il Murat aveva cercato di acquistarsi il favore degli italiani, offrendo loro l’idea della libertà e della unità nazionale, aveva trovato alta eco in un altro grande scrittore, il Manzoni, ma in una direzione chiaramente liberale e risorgimentale. Nel giovane Leopardi invece, chiuso ancora nel suo ambiente, legato alle idee del padre Monaldo e del retrivo ambiente di Recanati, l’avvenimento suscita una reazione di carattere ancora legittimista, antinapoleonico e sostanzialmente lontano dall’indirizzo chiaramente liberale e risorgimentale in cui lo poteva intendere un Manzoni. Tuttavia la posizione che il giovane Leopardi viene assumendo in questo scritto (pieno del suo schietto e giovanile fervore, pieno di una forte volontà di partecipazione, di impegno in prima persona) non è piú tanto quella tipica di Monaldo, puramente reazionaria, ma è piuttosto vicina alle posizioni propagandistiche della Restaurazione, i cui slogan (pace, lotta contro il tiranno europeo Napoleone, fratellanza dei popoli, diritti dei popoli e delle nazioni) vengono assunti dal giovane Leopardi con estrema serietà, ben al di là di quello che poteva volere effettivamente la propaganda, la pubblicistica restaurativa. Il giovane Leopardi sente fortemente e sinceramente le parole che venivano allora lanciate con tante opportunistiche intenzioni.

La pace, la fratellanza dei popoli, la libertà, l’odio per la tirannia, il diritto delle nazioni e dei popoli alla loro indipendenza sono in questo piccolo scritto testimonianza di un’adesione del giovane Leopardi a ideali proclamati dalla Restaurazione. Ma si tratta di vari ideali che piú tardi egli potrà liberare del loro carattere ambiguo e degli elementi legittimisti e che poi (sotto la spinta della conoscenza del Giordani e delle letture alfieriane e foscoliane) potrà portare al loro vero, retto senso liberale e risorgimentale.

Certo in questo scritto ci si muove ancora sul piano della legittimità, si parla dei sovrani come padri illuminati dei popoli, come «amati e legittimi» sovrani, e bisognerà giungere allo Zibaldone, fra il 1817 e il 1819, per trovare dei versi in latino che capovolgono satiricamente il senso di questi sovrani «amati e legittimi». Dirà allora:

Cum pietatem funditus amiserint

pî tamen dici nunc maxime reges volunt.

Quo res magis labuntur, haerent nomina. [85][31]

La posizione politica leopardiana ha fatto con questi versi, nel giro di pochi anni, un passo decisivo. Il Leopardi, uscito dagli inganni della Restaurazione, addirittura colpisce i sovrani legittimi proprio nei loro stessi appellativi piú tipici dimostrando quanto siano vani, pretestuali, ingannevoli. Ma, indubbiamente, già nello scritto del 1815 egli portava una tale carica di passione nazionale e di libertà, che essa poteva diventare poi facilmente, alla luce di nuove conoscenze, di nuove esperienze, di nuovi raccordi con altre idee, il fondamento lontano delle stesse canzoni patriottiche del 1818.


1 Per alcuni di questi testi si vedano due dei tre volumi finora pubblicati nella raccolta degli Scritti di Giacomo Leopardi inediti o rari, progettata dal Centro nazionale di studi leopardiani: V, Fragmenta Patrum Graecorum. Auctorum Historiae Ecclesiasticae Fragmenta (1814-1815), a cura di C. Moreschini, Firenze, Le Monnier, 1976; III, Porphyrii De Vita Plotini et ordine librorum ejus, a cura di C. Moreschini, Firenze, Olschki, 1982. Il Discorso sopra la vita e le opere di M. Cornelio Frontone si legge in Tutte le opere, I, pp. 896-905.

2 Cfr. S. Timpanaro, La filologia di Giacomo Leopardi, Firenze, Le Monnier, 1955 (nuova ed. riveduta e ampliata Bari, Laterza, 1978).

3 Cfr. L. Russo, «La “carriera poetica” di Giacomo Leopardi», in Ritratti e disegni storici, serie III, Dall’Alfieri al Leopardi, Firenze, Sansoni, 1963, pp. 197-303 (1ª ed. Bari, Laterza, 1946, pp. 210-332).

4

Qui, genitor, potrei mirar da l’alto soglio

la verità fiaccare degli empi il fiero orgoglio.

Cosí potesse alfine Filosofia scacciare

l’empie seguaci turbe, e i chiari rai vibrare:

per cui Ragion nel trono sublime un dí si assida,

la Religion si avvivi, giubili il mondo e rida.

Cadan negletti e vinti gl’iniqui dogmi e stolti;

il ciel propizio s’armi ed i miei voti ascolti. (vv. 21-28). Tutte le opere, I, p. 524.

5 «Quanto è grande Iddio! esclama un vivace pensatore, quanto è possente colui, che tra gli oscuri globi spande i volumi sfolgoranti di luce; che avendo formato il sistema splendidissimo della natura, ha sospeso l’universo, quasi ricco diamante, alla base del suo trono. Già sospira la mia anima di separarsi da questa creta, che la circonda: libera dalla salma corporea, s’alza di sfera in sfera, e vola in seno agli immensi spazi sovrapposti alla mia abitazione. Questa già non è piú che un punto agli occhi miei, essa già dileguossi ed io mi sento con la maggior celerità trasportato in altre regioni. L’astro della notte è sotto i miei piedi, il velo azzurrino dei cieli si squarcia, ed i recessi piú lontani dello spazio mi si aprono d’innanzi. Di tratto in tratto mi veggo vicini quei corpi, per i quali sudano gli uomini muniti di quelle armi, che ai loro occhi appresta la scienza. Lascio sotto di me il vostro anello di Saturno, e seguo coraggioso il volo ardito di una cometa. Con essa mi reco in mezzo a que’ fulgidissimi soli, che non han d’uopo di altrui luce per splendere e per illuminare spazi infiniti. Ma la mia carriera non è appena cominciata: questo che io veggo non è che il portico del palagio dell’Onnipotente. Posso dir tuttora di serpeggiare sul suolo. Quanto piú m’inoltro verso l’Eterno, tanto piú egli sembra allontanarsi da me. Qual sarà mai la magione del divino architetto, se per albergar degli insetti egli ha innalzato un sí maestoso edifizio? Qui fermiamoci alquanto e riposiamo alcun poco. Terra, Sole, dove siete voi? Quanto angusto è mai ciò, che noi crediamo immenso. Il mio sguardo abbraccia ora tutta l’estensione della natura. Quante migliaia di mondi si muovono sotto i miei piedi, quasi luccicanti granelli di arena. Io cerco sempre maggiori argomenti per ammirare la possanza del Creatore. Quale è mai la natura degli abitatori di questi globi, quale quella dei loro pensieri? La ragione è forse tra loro assisa in un trono? Ribellansi questi esseri contro lei? Quando la sua face si spegne, ne hanno essi una seconda, che loro serva di guida? Regna qui tuttora la virtú, l’innocenza? Godono questi esseri della immortalità, o son sottoposti al dolore e alla morte? Qual luogo li attende dopo il loro transito? V’è tra essi chi sieda sul trono, chi sia fregiato di corona e di scettro, chi divinizzi i distruttori del suo genere, chi arda incensi ai tiranni della sua nazione? Hanno essi idea alcuna dell’uomo e della terra? Disprezzano, come noi, la ragione, e schiavi volontari si rendono della follia? Se io m’inganno col moltiplicare i mondi, il mio è un error sublime, ed ha per base l’idea della divina grandezza. E chi potrà mostrarmi che io sia nell’inganno? Chi oserà prescriver limiti alla divina possanza? Un suo cenno può far che esistano migliaia di mondi. Non si condanni il mio entusiasmo; sacro è il fuoco, che m’accende. Non mi si tolgano le idee, che mi agrandiscono e m’infiammano. Allargando i confini della esistenza, non cerco che accrescere la gloria del Creatore.

Io mi avveggo di essermi troppo lasciato trasportare dai voli di questo immaginoso scrittore. Vuole l’instituto del mio argomento che si ascoltino le ragioni dai fautori della pluralità dei mondi arrecate per sostenere il loro sistema». Tutte le opere, I, pp. 631-632. (In questo passo sono state omesse le note di G. Leopardi. Anche nei passi successivamente citati, quando vi compaiano note leopardiane, esse, non essendo essenziali per la comprensione del testo, sono state omesse per non appesantire troppo il volume).

6 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 729-730, 731, 735.

7 Cfr. W. Binni, Preromanticismo italiano, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane, 1947 (poi Bari, Laterza, 1974 e ora Firenze, Sansoni, 1985). Il Leopardi leggeva le Notti nella versione in versi del Bottoni (Siena, 1775) e in quella piú efficace e fedele, in prosa, del Loschi (Venezia, 1786).

8 Le Lamentazioni ossieno le Notti d’Odoardo Young, coll’aggiunta di altre sue operette, Libera Traduzione di Lodovico Antonio Loschi, con varie annotazioni, seconda edizione, 3 tomi, in Venezia, Presso Giovanni Vitto, 1786.

9 Ivi, III, p. 79.

10 Ivi, III, p. 23.

11 Ivi, III, p. 37.

12 Ivi, I, p. 10.

13 Ivi, I, pp. 200 e 82.

14 Ivi, I, p. 22.

15 Ivi, I, p. 232.

16 Ivi, II, pp. 214-215.

17 Cfr. Ivi, III, pp. 279-280 e 281.

18 Ivi, I, p. 173.

19 Ivi, II, p. 24.

20 Ivi, I, p. 28.

21 Ivi, II, pp. 70 ss.

22 Tutte le opere, I, p. 769.

23 Tutte le opere, I, p. 816.

24 Tutte le opere, I, p. 751. Il discorso, che si legge alle pp. 751-753, ha per titolo La flagellazione.

25 Come tentava di fare specialmente Giuseppe De Robertis, che ha esaminato a lungo quest’opera nel suo Saggio sul Leopardi, Firenze, Vallecchi, 1973 (1ª ed. Firenze, Vallecchi, 1944, e già pubblicato come introduzione a G. Leopardi, Opere, a cura di G. De Robertis, 3 voll., Milano-Roma, Rizzoli, 1937).

26 Tutte le opere, I, pp. 807-809.

27 Tutte le opere, I, p. 794.

28 Per i rapporti tra Leopardi e Gessner, e piú in generale tra Leopardi e la poesia del Settecento, cfr. W. Binni, «Leopardi e la poesia del secondo Settecento», relazione presentata al primo Convegno internazionale di studi leopardiani e poi pubblicata, ampliata e corredata di note, prima ne La Rassegna della letteratura italiana, n. 3, 1962, pp. 389-435, poi in Leopardi e il Settecento, Atti del I Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 13-16 settembre 1962), Firenze, Olschki, 1964, pp. 77-131. Lo studio si può leggere ora, con ulteriori modifiche e aggiunte, in W. Binni, La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1973, nuova ed. accresciuta Firenze, Sansoni, 1982 (1989³), pp. 157-216.

29 Tutte le opere, I, p. 868.

30 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 869-875.

31 Tutte le opere, II, p. 50 (Quando hanno perso del tutto il senso del dovere / i re, tuttavia, allora soprattutto vogliono essere considerati coscienziosi. / Quanto piú le cose decadono, i nomi rimangono ben saldi). Per il problema dell’attribuzione di questi versi, cfr. S. Timpanaro, La filologia di Giacomo Leopardi cit., p. 144, il quale ritiene molto attendibilmente che ne sia autore lo stesso Leopardi. In anni recenti ha finalmente visto la luce lo Zibaldone di pensieri, ed. critica e annotata a cura di G. Pacella, 3 voll., Milano, Garzanti, 1991.